martedì 30 marzo 2021

Artemisia Gentileschi- Siamo donne

Sin da piccola ho amato guardare mio padre, il pittore Orazio Gentileschi, trasformare la tela bianca in un mondo scaturito direttamente dal suo pennello intinto nei colori, un mondo guidato dal movimento sapiente delle sue dita sporche di vernice. Amavo tanto la pittura che mio padre decise di insegnarmi tutto ciò che sapeva, dal mescolare i colori allo stendere la pittura seguendo i disegni della mia mente. 

Quante sono le donne ricordate, a fianco dei grandi artisti maschi, nel mondo dell’arte? Nella mia epoca, intorno al 1600 d.C., sono davvero poche e soffocate dagli uomini e dalle opinioni della società. Io posso dire con certezza di appartenere al mondo degli artisti allo stesso modo di Caravaggio o Michelangelo perché è all’arte che ho dedicato la mia vita.


Autoritratto


A quindici anni cominciai ad aiutare mio padre nella sua bottega a Roma e a dipingere qualche opera personale. Come era fiero di me! Decise addirittura di affidarmi a un suo collega pittore, Agostino Tassi, perché mi insegnasse l’uso della prospettiva. Agostino era un grande pittore, ma aveva un pessimo carattere e prese a fare pressioni perché io diventassi la sua amante, proposte che rifiutai categoricamente. Povero padre mio, mi aveva affidata ad Agostino per permettermi di diventare la grande pittrice che sognavo di essere, ma quell’uomo, irritato dai miei rifiuti, prese a covare una rabbia bruciante nei miei confronti. Un giorno perse la pazienza e, chiusami a chiave in una stanza, mi violentò. 

Ferita nell’orgoglio e nell’anima andai da mio padre e poi, insieme, denunciammo Agostino alla giustizia. Prima di compiere questo grande passo, però, tergiversai ascoltando le menzogne di Agostino che prometteva di sposarmi per salvare il mio buon nome. Avevo paura, lo ammetto, quell’uomo aveva amici potenti e sapevo che molti di loro avrebbero testimoniato contro di me.

Il processo contro Agostino fu lungo e, come avevo previsto, diverse persone mi accusarono di cose terribili, menzogne che molti raccontarono in giro e che presero a perseguitarmi. Io, però, volevo giustizia e così, quando le autorità giudiziarie proposero di sottopormi alla tortura per verificare la veridicità delle mie accuse, accettai. Mi legarono i pollici con delle cordicelle e poi, grazie all’uso di un legno, presero a stringerle sempre di più intorno alle falangi. Questa era una tortura studiata apposta per me, che ero una pittrice, e che, se avessi perso l’uso delle dita, non avrei mai più potuto dipingere, nessun dolore sarebbe stato più grande di questo. Mentre mi legavano le dita guardai in faccia Tassi e, mentre la rabbia che sgorgava dalla ferita che mi aveva provocato mi colmava, gli dissi: “Questo è l'anello che mi dai, e queste sono le promesse!”.

Fortunatamente le mie dita non subirono danni permanenti e l’uomo che mi aveva pugnalata tanto nel profondo venne giudicato colpevole, anche se non subì alcuna pena concreta grazie ad amici potenti che lo protessero dalla condanna.

Io ora vivo a Firenze con mio marito Pierantonio Stiattesi, un modesto pittore, e sto cercando di ricominciare a vivere normalmente. Tassi non è stato punito come meritava, ma ora posso dire di aver lottato con tutte le mie forze per dimostrare la mia purezza e posso tornare a immergermi nel mio mondo fatto di sbuffi di colori e tele da riempire.


Chiara Tuberga


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